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Cultura

Gli Sbagliato in mostra alla Galleria Varsi con "Vertigine": "Il vuoto è una possibilità di scoprire se stessi"

Galleria Varsi
Galleria Varsi 

Suggerire realtà che non esistono, modificare con una semplice stampa spazi diversi da quelli in cui si muove, contaminare pratiche architettoniche europee con quelle d'Oltreoceano. È questo il leitmotif del fare arte del gruppo di architetti e designer Sbagliato, che fino al 13 novembre sono in mostra con la loro personale Vertigine alla Galleria Varsi di Roma.

Il gruppo romano ha voluto qui indagare la possibilità di fare esperienza del vuoto e per questo ha realizzato una serie di applicazioni fotografiche riguardanti le scale, stravolgendo gli spazi della Galleria e infrangendo le leggi della prospettiva. Da tale tema, appunto, il titolo Vertigine, Vertigine, che richiama da un lato l’architettura con le sue “altezze” e dall’altro una paura, una sensazione legata alla percezione umana.

L'Huffington Post ha avuto modo di visitare la mostra e di intervistare il gruppo di artisti capitolini, formatosi nel 2011.

Il gruppo Sbagliato è famoso nel mondo per le sue istallazioni tramite il poster, istallazioni che creano illusioni architettoniche su strutture preesistenti. Stavolta, tuttavia, avete voluto sperimentare qualcosa di nuovo: di che si tratta?

Per la Galleria Varsi abbiamo utilizzato per la prima volta dei lightbox - solitamente usiamo la carta -, fatti in alluminio e con la retroilluminazione LED. Si tratta di un supporto che originariamente era destinato alla pubblicità. Ogni fotografia che abbiamo inserito in questi lightbox ha un nome proprio di persona, volontariamente. Quelli che ritraiamo, infatti, sono tutti edifici privati, poiché non vogliamo riprodurre la classica architettura da cartolina. Le scale fotografate per la mostra Vertigine, invece, raccontano le vite di chi le utilizza tutti i giorni per tornare e uscire di casa.

La vostra poetica prevede la campionatura - tramite fotografia - di edifici, scale, porte, finestre ed elementi architettonici vari pescati un po' in tutto il mondo. Che effetto volete ottenere?

La nostra arte è accostabile al concetto di iperrealismo (la corrente artistica che si pone l'obiettivo di riprodurre in modo quanto più fedele possibile la realtà, ndr.), ma c'è anche una forte dose di astrazione in quello che facciamo, di simbolizzazione. Ad esempio, il tema della mostra Vertigine - le scale - è da sempre simbolo dell'ascensione. Però noi le abbiamo rivoltate di 180 gradi, quindi assumono la parvenza di un corridoio. Così facendo abbiamo ottenuto una visione sia orizzontale che verticale, abbiamo creato la necessità di avere più punti di vista.

Eppure, a me sembra che l'effetto ultimo della vostra arte sia surrealista...

Sì, in noi iperrealismo e surrealismo convivono. Quando creiamo un'istallazione non suggeriamo un processo interpretativo, vogliamo che il fruitore si interroghi sulla realtà. Dall'iperrealismo, quindi, il nostro percorso arriva alla metafisica, anche se utilizziamo foto e poster di elementi architettonici comuni. In tal modo però portiamo a uno straniamento del punto di vista. Del resto noi rappresentiamo e riproponiamo il vuoto architettonico.

Mi avete parlato di astrazione. Gli ultimi artisti che ho sentito, del resto, mi hanno confidato che nel corso della loro carriera sono andati sempre più verso la semplificazione e la scarnificazione del tratto artistico...

È semplificando e astraendo che si capisce meglio un concetto e una realtà, che si arriva all'essenza, però per quanto riguarda noi non si tratta di un'evoluzione stilistica, di uno sviluppo iconico, bensì di una variazione. Nella nostra poetica ci sono infatti dei punti fissi, ma non abbiamo una griglia rigida da seguire.

Vertigine è il vostro primo "solo show" e arriva in una Galleria sui generis come la Varsi, nel centro di Roma...

Abbiamo accettato l'invito di Massimo (Scrocca, il giovanissimo direttore della Galleria, ndr.) con una discreta dose di paura, perché per la prima volta il gruppo Sbagliato sarebbe finito in un galleria, luogo classico dell'arte dei secoli scorsi. Noi non siamo tipi da esposizione, siamo sostenitori dell'arte performativa, e del resto siamo architetti: l'architettura si fa solitamente in grandi spazi. Ma si trattava di una sfida, e le sfide difficili ci piacciono.

Oggi siete dietro Largo Argentina, ma avete scattato foto e lavorato in molti stati e città: Londra, Barcellona, Budapest, New York, Miami, Santiago del Cile, Seychelles, Lisbona, Cracovia, Liegi, Chicago, Las Vegas. Qual è la differenza nel lavorare a Roma rispetto al montare un'opera a New York?

Noi campioniamo elementi architettonici in giro per tutto il mondo, poi facciamo uno scambio interculturale. È suggestivo campionare ad esempio a Roma e applicare uno scatto della capitale italiana su un palazzo di New York e viceversa. Ma il nostro linguaggio e la nostra formula non cambiano.

Campionando gli elementi architettonici esistenti in varie città e applicandone una riproduzione a stampa sulle facciate più varie create una sorta di effetto shock, create ciò che non c'è. Oppure la vostra è una volontà di mimesi del reale?

C'è sia lo strappo che la mimesi nella nostra poetica, dipende dal singolo lavoro. La street art è sempre stata uno strappo e una critica alla società, ma noi a volte siamo anche spettatori silenziosi.

Come mai utilizzate la carta - un materiale così facilmente deperibile - per le vostre opere?

Innanzitutto per un motivo tecnico: sulla carta la stampa delle foto viene meglio e tramite la fotografia riusciamo a riprodurre qualsiasi forma. Ma poi c'è anche una volontà metaforica, di simboleggiare l'effimero. Non abbiamo un intento invasivo nei confronti di ciò che ci circonda, non ci interessa fissare in nostro lavoro. Del resto, tutta l'architettura in esterna tende a decadere a causa dell'azione del tempo.

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